Al di sopra di tutto la Carità


A cura di Dante Balbo



 

Quasi per caso, sfogliando le proposte del Rinnovamento nello Spirito, mi sono imbattuto in una relazione di Mons. Angelo Comastri, arcivescovo di Orvieto, grande amico di madre Teresa di Calcutta, che ha tenuto l’estate del 2000 a Prato in Italia, per il “ministero per l’impegno sociale e politico” del Rinnovamento nello Spirito. La relazione è stata trascritta e rappresenta il primo capitolo di un libro dal titolo “L’uso del denaro nella vita del cristiano”, pubblicato dalle Edizioni RnS.

Quale fu la mia sorpresa nel ritrovare accenti cari, somiglianze di vedute, addirittura di linguaggio, fra questo testo e il pensiero di Mons. Corecco (vedi riquadro).

Qui di seguito riportiamo ampi stralci della relazione di Mons. Comastri, che sebbene non sia semplicissima da leggere e apparentemente faccia riferimento a questioni teologiche, è di una concretezza sbalorditiva.

La stessa logica di falso aiuto sociale che viene denunciata qui, la trovate su questa stessa rivista quando si parla di volontariato e della necessità di superare la logica della “beneficenza”, del dono da Dame di Carità, della concessione del superfluo o del sacrificio ricattatorio.

Il prelato del celebre santuario Mariano, come già Mons. Eugenio Corecco, alza il tiro, allarga gli orizzonti, portandoci nella gratuità del dono infinito di Dio, nella possibilità di realizzare la nostra somiglianza all’Eterno nello stesso slancio di gratuità e accoglienza, che con il mito del “povero è bello e rivoluzionario” non ha niente a che fare.

 

 

Perché Gesù nasce povero

 

Sono molto contento di poter affrontare con voi un tema che è di straordinaria attualità e sul quale, purtroppo, in questi ultimi decenni, molti cristiani hanno fatto “naufragio”, e cioè: il rapporto con il denaro e la concezione dell’impegno sociale da un punto di vista cristiano”.

Se andiamo al capitolo 25 di Matteo, al celebre “giudizio finale” (cf 31 ss), possiamo renderci conto di come la sua interpretazione può andare in una direzione o in un’altra e, a seconda della direzione che prende, se ne ricava “un certo” impegno sociale.

Attraverso la parabola del giudizio finale, Gesù vuol dirci questo: ci saranno alla fine dei tempi molte persone che pensavano di essere lontane da Dio, e invece, con stupore, si accorgeranno di essergli vicine; ci saranno altre persone che presumevano di essere vicine a Dio e invece, nell’ora della verità, si accorgeranno che il loro cuore era lontano da lui. Perché Gesù dice che Dio guarderà alla vita. Alla vita delle persone. E nella vita guarderà all’amore.

Da questa parabola dobbiamo ricavare una prima conclusione: è la vita il libro che Dio leggerà; e nella vita, Dio guarderà l’amore.

Per capire qual è l’amore verso cui Dio guarderà, devo rifarmi necessariamente ad altre affermazioni di Gesù. Per esempio, non posso prescindere dal capitolo quarto di Matteo, nel quale l’evangelista racconta le tentazioni di Gesù e dice: Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo (Mt 4, 1).

La vita umana è una prova, la tentazione fa parte della vita, perché la tentazione non è altro che il luogo in cui si esprimono la libertà e l’orientamento del cuore. Ed è lo Spirito che conduce Gesù nel deserto perché sia tentato dal diavolo, perché la libertà, anche umana, di Gesù si esprima totalmente. E’ chiaro che Gesù, mentre vive questa esperienza, pensa a noi, ci parla: ci dà dei messaggi.

E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane» (Mt 4, 23).

Perché il demonio presenta questa tentazione Evidentemente perché pensa che il benessere sia la risposta totale alle attese del cuore dell’uomo. «Cambia i sassi in pane!»: se ti assicuri il benessere, ti sei assicurato tutto, perché il benessere risponde alle attese totali del cuore umano: è questa la lettura antropologica che dà satana. Ma ciò non è vero, infatti Gesù risponde: Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4, 4). Purtroppo c’è chi pensa che l’uomo viva di solo pane e allora fa del benessere materiale l’unico scopertine/copo del suo impegno sociale. Ma questo, impostato così, non è cristiano perché va contro l’indicazione del Vangelo. Ora, se il Vangelo è la mia norma, non posso cercare di attenuarlo; è il Vangelo che mi deve “definire”, non sono io che devo definire il Vangelo. Qui Gesù è chiaro: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Guai a dimenticare queste parole di Gesù!

Ci può, infatti, essere nei confronti dei poveri l’impegno di garantire loro il benessere, partendo dalla convinzione che questo sia l’unico bene. E’ un impegno che raggiunge i poveri, ma con promesse atee. Questo non è carità cristiana, non è l’impegno sociale cristiano e io l’ho capito frequentando madre Teresa di Calcutta. Una volta mi disse: «Molti vanno verso i poveri, ma vivono una carità atea. Si impegnano per i poveri soltanto perché credono che il benessere sia lo scopertine/copo della vita. E quindi è chiaro che lo fanno anche in maniera violenta: si arrabbiano, si sdegnano, perché per loro è tutto».

Invece c’è un modo di andare verso i poveri che non parte dalla convinzione che il benessere sia tutto, ma che “il donarsi” sia tutto, per i ricchi e per i poveri, per tutti: perché “donarsi” è il verbo di Dio, è l’agire di Dio. Il donarsi è il mistero stesso di Dio.

Questo vale per me che dono, ma vale anche per il povero che riceve. Perché io non avrò dato niente al povero, se non gli faccio comprendere che quello che gli do non è altro che un “messaggio” per dirgli che il dono è il senso della vita, anche per lui.

Madre Teresa raccontava: «Io fui tanto felice quando, andando a visitare una povera famiglia a Calcutta, con tanti bambini che stavano morendo di fame, portammo, con una consorella, un sacco di riso. Era una famiglia musulmana. Vedemmo i bambini stremati perché non avevano da mangiare. La famiglia fu felice, la mamma mi abbracciò e mi disse: “Madre, lei non se ne ha a male, se questo sacco lo divido in due, perché accanto a noi c’è un’altra famiglia che muore di fame come noi”. Che grande cristiana era quella musulmana, anche se non lo sapeva! Per grazia di Dio, il Vangelo era arrivato nel cuore di quella povera. Ella aveva capito che il dono è il senso di tutto».

 

 

Il giusto impegno sociale

 

Alla luce della parola di Dio, ho capito che c’è un impegno sociale che allontana da Dio, quindi è un impegno sociale non cristiano, perché è idolatra. E’ l’impegno che nasce da un’idolatria del benessere.

C’è invece un impegno che nasce dalla comunione con Dio e che, nella fede, noi scopertine/copriamo come “mistero” del dono. Questo è il mistero di Dio. E’ chiaro che, avendo capito questo, non si può fare a meno di tradurre in dono tutto quello che si ha.

Ma, mentre ciò avviene, è necessario andare sempre al di là di quello che si dà, per far capire che questo è soltanto un messaggio per tradurre il donarsi di Dio, perché la vera ricchezza è il donarsi.

Ecco un’altra affermazione di madre Teresa: «Quando andremo davanti al Signore, lì capiremo che nel regno di Dio la contabilità è completamente diversa da quella degli uomini, da quella delle banche: in questo mondo è mio quello che ho, nel mondo di Dio è mio quel che dono».

 

 

Andare a Betlemme

 

Ora è possibile passare al capitolo secondo di san Luca e capire il messaggio del Natale. Il messaggio della povertà. Capiremo perché Gesù è nato povero e perché non poteva nascere in nessun altro modo.

Leggendo il racconto si ha l’impressione che san Luca voglia fare una prima grande cornice storica. Egli dice: In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra (Lc 2, 1). E’ una cornice storica, in cui l’imperatore di Roma “sembra” colui che comanda. Se uno legge senza fede si chiede: «Ma allora, chi comanda in questo mondo? Cesare Augusto o il Signore onnipotente?».

Questa domanda si ripropone in tutti i tornanti della storia, ma c’è da stare tranquilli che comanda Dio, e lo fa con la sua vera onnipotenza. C’è poi una seconda cornice:

... mentre si trovavano in quel luogo [a Betlemme, un piccolissimo villaggio] si compirono per lei i giorni del parto. [Ed ecco il fatto] Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia [non è la culletta verniciata di porporina che mettiamo nei presepi, ma è l’angolo estremo della grotta, dove c’erano fieno e sterco, perché nelle grotte vivevano gli animali] perché non c’era posto per loro nell’albergo (Lc 2, 67).

L’avvenimento più importante di tutta la storia umana, si è compiuto lì, in quella grotta alla periferia di Betlemme, un piccolo villaggio. Maria e Giuseppe ne sono i protagonisti stupiti, meravigliati, estasiati perché il grande avvenimento avviene nella povertà più assoluta.

Cosa ci ha voluto dire Gesù nascendo a Betlemme e facendo sua la povertà, che anche Maria ha fatto subito sua?

C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce (Lc 2, 89).

Anche qui, l’angelo viene mandato ai pastori, che non sono i proprietari del gregge: i pastori proprietari dormivano a Gerusalemme tranquilli. Questi sono i garzoni, i servi. L’angelo fu mandato ai garzoni.

Essi furono presi da grande spavento [è lo stupore del mistero] ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo, oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore che è il Cristo Signore» (Lc 2, 911).

L’angelo dice: vi dò una grande gioia, vi porto una grande notizia che vi colmerà di gioia: è nato colui che riempie il cuore, è nato colui che soddisfa la sete, è nato colui che sazia la fame! Ma attenti, dice l’angelo ai garzoni: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12).

L’angelo dice: la povertà sarà il grande segno che vi parlerà del mistero. Quindi se andate là, cercando un benessere, beni materiali, argento e oro... no, lì non troverete nulla. Se andate liberi, con il cuore completamente povero, vi accorgerete che in quella povertà c’è Dio.

 

 

Dio è amore

 

La rivelazione cristiana ci porta questa grande notizia: Dio è amore.

Ecco la stupenda notizia della visione biblica: l’amore è dono. Se l’amore non è dono, è menzogna. In questo è la spiegazione del perché la Chiesa quasi si sente ferita quando si inquina il senso dell’amore. Ogni offesa all’amore diventa un’offesa a Dio, perché Dio è amore.

Dio è amore, ma l’amore è dono. Se Dio è amore infinito, Dio è dono infinito. Ma se Dio è dono infinito, Dio non possiede niente! Dio, infatti, è dono! Il donarsi è il mistero di Dio!

Il Padre non può essere Padre se non dona tutto se stesso al Figlio! E il Figlio non è Figlio, se non si dona al Padre, non si “restituisce” al Padre nell’abbraccio dello Spirito Santo, nel bacio dello Spirito Santo, che è il donarsi stesso di Dio! Se Dio è amore infinito, Dio è dono infinito; se Dio è dono infinito, Dio è povertà infinita: cioè è “non possesso”, è dono!

La povertà di Betlemme è il primo raggio del mistero di Dio, che si manifesta nella storia degli uomini. Vedremo poi come questo raggio ha il suo meriggio nella morte di Gesù, che è la grande manifestazione di Dio, la teofania, il vero “Roveto ardente” nel quale Dio si manifesta all’umanità.

Nel momento in cui Gesù, nella sua umanità  che ha preso in solidarietà con noi  ha offerto il più totale atto di amore, in quel momento la sua morte è diventata un atto divinoumano, cioè un atto di amore di Dio “detto” nella carne umana.

E in quel momento la carne umana si è spezzata come un muro, è caduta, ed è passato il dono dell’amore che è entrato in circolazione nella storia umana, cioè lo Spirito Santo è stato donato all’umanità.

Noi siamo i testimoni di questo mistero, siamo il popolo al quale è stata consegnata questa buona notizia, perché ne diventassimo testimonianza vivente.

Quindi il donarsi deve essere il nostro stile, ma perché? Perché Dio è dono, e noi nel donarci vogliamo svelare Dio. E’ chiaro che il gesto del donare non ha nessun senso se lo si fa esclusivamente con la convinzione che soltanto “il pane” risponde alle attese dell’uomo. Certo il gesto di donare il pane conserva tutta la sua validità, ma la lettura è ben diversa: Non di solo pane vivrà l’uomo... (Mt 4, 4).

 


La sovrabbondanza della carità

 

Dal 1992, il testo che segue è il manifesto di Caritas Ticino, scritto e annunciato per noi da Mons. Eugenio Corecco, con la lucidità di un grande saggio che ha colto la radice del pensiero cristiano. Per tutti questi anni ci siamo battuti nel nostro lavoro, sulle pagine della Rivista, dagli schermi di Caritas Insieme Tv, per affermare questo principio.

 

[…] Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande, ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente razionali. Il primo è la gratuità verso l’uomo in difficoltà, poiché è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo è quello dell’eccedenza, poiché eccedente è l’amore di Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza e l’amore di Dio. E’, infatti, limitante guardare all’uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l’uomo è di più del suo bisogno e l’amore di Cristo è più grande del nostro bisogno. Sarà sempre possibile dare nei confronti dell’uomo e dei suoi bisogni, spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza. Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione cristiana […].

(da Diocesi di Lugano e Carità: dalla storia uno sguardo al futuro, pag 207)


Nessun pietismo volontaristico

 

Sullo stesso registro dei due vescovi troviamo un’altra testimonianza andata in onda il 12 maggio scorso nella rubrica il Vangelo in casa di Caritas Insieme TV. A parlare di Carità è il nostro commentatore abituale per la lettura domenicale, l’esegeta Don Giorgio Paximadi.

 

La carità cristiana non è mai un’espressione della buona volontà del cristiano di amare ma è sempre la manifestazione del fatto che c’è un amore più grande che ci supera all’interno del quale noi possiamo eventualmente amare gli altri. Ma la buona volontà, il volontarismo, il pietismo volontaristico o il moralismo non hanno mai spazio nei Vangeli, tanto meno nel Vangelo di Giovanni. È sempre Cristo che ama in noi e il nostro amare è manifestazione di Cristo per cui è sempre verticale, mai orizzontale; ecco perché la carità cristiana non è mai semplicemente la sociologia della povertà ma è l’affermare che l’amore ha vinto nella persona di Gesù Cristo. Madre Teresa di Calcutta questa cosa ce l’aveva ben chiara facendo fare alle sue suore un’ora di adorazione eucaristica prima di andare a raccogliere i morenti per la strada; c’è sempre questa duplice dimensione dell’amore cristiano.

Uno si potrebbe chiedere: Madre Teresa di Calcutta, quando andava a raccogliere i morenti per la strada, cosa molto di moda da un certo punto di vista o per lo meno gesto di una umanità molto chiara che tutti capiscono, se non avesse fatto quell’ora di adorazione eucaristica avrebbe raccolto più morenti! Mentre lei ha sempre detto che il senso del suo raccogliere morenti era l’ora dell’adorazione eucaristica precedente, cioè rendere manifesto il fatto che la misericordia che si piega su quei morenti non è la misericordia di lei, povera donna, ma la misericordia di Cristo.